Piero Lacorazza. Lavoro nelle aree interne. Una sfida di tutto il Paese

Gianni Lacorazza
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di Piero Lacorazza


“Lavoro nelle aree interne” è insieme una sfida ed una rivendicazione.

Non è una narrazione, altrimenti si sarebbe potuto chiamare Festival del lavoro “delle” aree interne.

È una sfida che non ha un altro giocatore contro cui vincere, non è contrapposizione: non è un derby tra aree interne e città, montagna e pianura, margini e centri. È invece il tentativo di porre nello spazio e nel tempo, nella geografia e nella demografia una comunanza di destino, un inestricabile legame che tocca direttamente e indirettamente tutti: la Repubblica è una ed indivisibile.

É nel solco costituzionale la radice profonda di un patriottismo non ideologico, non identitario o peggio ancora etnico; un patriottismo solidale, unitario, capace di respirare a pieni polmoni e camminare fiducioso verso vette da cui lo sguardo diventa più profondo ed aperto.

Il Festival è una sfida: divari e diseguaglianze se non liberate dalla rimozione di ostacoli impediscono “il pieno sviluppo della persona” – art. 3 della Costituzione – e si portano via il futuro del Paese.

Meno lavoro nelle aree interne significa meno lavoro nel Paese. Non c’è molto da spiegare. In questi territori il declino demografico, quindi la perdita di capitale umano, rischia di “ammalare” la geografia e non c’è, o non sappiamo neanche se fosse corretto somministrarlo, un vaccino di tipo RNA.

Anzi come Augusto Ciuffetti, presidente di ReSPRO, ha ricordato in una recente intervista su Altraeconomia.it “… La lunga storia di queste realtà ci consegna una moltitudine di mestieri in grado di indicare validi percorsi per il futuro, da rileggere in una chiave moderna e di qualità, capace di preservare preziose originalità…”

Gli anticorpi ci sarebbero per reagire alla omologazione imposta, e forse anche assecondata, dal processo di globalizzazione. Le transizioni digitale ed ecologica possono essere una opportunità se umanesimo e scienza diventano il binario su cui far camminare il treno delle scelte.

Aumentano spazi “non vissuti” e diminuiscono le persone, e si pone il tema del rapporto tra luoghi e comunità. C’è bisogno di riflettere, in punta di diritto e di agenda politica nella nuova dimensione geografia/demografia, sul senso di utilizzazioni collettive e di patrimonio pubblico, di bene comune che rischia o di essere ulteriormente imprigionato o soggetto a tendenze o pratiche anarcoidi e predatorie. Mi viene da pensare ai boschi, ai pascoli, all’acqua… I luoghi dovrebbero fare la differenza, dare e far crescere il valore per chi ci vive e chi investe. E forse sarebbe anche il caso di andare oltre, nel cuore dei paesi, interrogandosi sulla relazione tra luoghi e comunità anche dal punto di vista urbanistico e del patrimonio edilizio: ad esempio ci si può interrogare sul limite dei vincoli – talvolta contemplativi ed altre paralizzanti, con evidenti rischi di decadenza e non utilità – della “conservazione”? Non saprei dare una risposta ma sono certo che la domanda è giusta e non può essere scartata

Si tratta, come abbiamo scritto su questa rivista, di porsi, appunto, le domande giuste e soprattutto avere la consapevolezza che” le risposte non sono una semplice replica ad un interrogativo ma sono tali se generano davvero trasformazioni ed evoluzioni dentro il tempo che viviamo preparando il futuro”.

La perdita di abitanti per l’Italia rende il Paese meno competitivo, meno produttivo. “L’inverno demografico brucerà un terzo del PIL”, ha dichiarato Blangiardo presidente dell’ISTAT. Solo per effetto del cambiamento demografico, della composizione per età della popolazione, del numero di abitanti il Pil dai 1800 miliardi di oggi scenderebbe di 500 miliardi nel 2070.

Non consegniamo le nostre idee al solo Pil, a proposito del dibattito su indici di benessere e ricerca della felicità; tuttavia non crediamo che a breve si possa fare a meno della bilancia. Così come a breve siamo chiamati a raggiungere gli obiettivi dell’Agenda 2030 ONU per lo Sviluppo Sostenibil; non a caso l’evento di Soveria Mannelli è anche collocato nel Festival dello Sviluppo Sostenibile promosso da ASviS.

E se il calo della popolazione riguarderà anche la popolazione d’imprese, la scelta di incontrarsi a Soveria Mannelli è fortemente simbolica e va oltre l’importante contributo che una casa editrice, Rubbettino, consegna al pensiero e alla cultura del nostro Paese.

Va oltre perché Rubbettino, come altre esperienze presenti nel territorio, è un’azienda che crea lavoro “nelle” aree interne per il Paese poiché sede e radici non impediscono, con tante difficoltà, di stare nel mercato e nella catena del valore, spazialmente oltre la provincia di Catanzaro.

In scala diversa, anche la stessa esperienza di Fondazione Appennino ha queste caratteristiche. La sede è a Montemurro ma il processo produttivo e sociale, così come la distribuzione di opportunità non si limita ad un piccolo paese dell’Appennino lucano, a cui comunque restituisce valore, ma va oltre.

È una sfida perché essere parte del tutto e contribuire al sistema non significa, tuttavia, che l’Italia è uguale. È una ed indivisibile ma non uguale. E se proprio dovessimo uscire dall’imbarazzo di un’autocitazione, la parte che più si indentifica e si riconosce con una certa omogeneità è proprio la dorsale appenninica.

E allora per andare dritti al punto e al cuore della nostra Costituzione, c’è bisogno anche di politiche differenziate che valorizzino il principio universalistico, il valore della solidarietà, la opportunità della sussidiarietà. Un ribaltamento del campo, a proposito del dibattito avviato sull’autonomia differenziata, che spinga addirittura a pensare che il lavoro nelle aree interne sia necessario sostenerlo a breve e medio termine con la fiscalità, la premialità e l’incentivazione. Queste scelte, mi rendo conto molto complesse, sono investimenti nell’interesse generale del Paese.

Ribadisco, semplici a dirsi ma complesse a farsi.

“Lavoro nelle aree interne” è anche una rivendicazione, non intesa come manifestazione di un capriccio ma come, per dirla con le parole di Rocco Scotellaro, nel centenario della sua nascita, di radicamento: “la terra mi tiene”.

E ancora con il Sindaco-Poeta: “Io sono un filo d’erba / un filo d’erba che trema. / E la mia patria è dove l’erba trema”

In questo senso il Festival è anche una rivendicazione, il senso di appartenenza ad un terra come energia per stare e giocare una sfida complessa.

Il lavoro è patria.

Tuttavia Soveria Mannelli, nel cuore della Calabria, consegna al Festival anche un’altra riflessione: la verticalità interna ed appenninica interseca la “questione meridionale” e quindi consiglierebbe un allungamento di una visione “metromontana”, originale ed efficace lettura di interconnessioni funzionali tra città e montagna, rilanciata recentemente da Filippo Barbera ed Antonio De Rossi.

Un allungamento nel Mediterraneo della visione metromontana é necessario perché il mare nostrum non è un’appendice ma una dimensione culturale ed economica della nostra patria, è la terra dove “l’erba trema”.

“L’Italia è il mare”, è stato il titolo di un numero nel 2020 della rivista “Limes” in cui vi era una sezione dal tema “Il mare non bagna l’Italia”, il segno di una continua e discussa narrativa che riporta agli anni Cinquanta, ed in particolare al libro “Il mare non bagna Napoli” di Anna Maria Ortese. La dimensione europea e mediterranea sono facce della stessa medaglia “nazionale” in cui le aree interne e il Sud – quindi l’Italia – sono al tempo stesso luoghi in cui “differenziare” ma anche riserve di natura e benessere in cui la “restanza” sia un vero diritto alla vita e all’approdo, di qualità per tutti, compreso per coloro che agitano le acque continuando a far galleggiare le speranze nel mare nostrum.

L’Appennino è contemplazione e ricerca, memoria e utopia, fuga dai miti e rifondazioni di altri miti. Terra che non è più Oriente e non è ancora Occidente, eppure li contiene entrambi. Il luogo dove le fole del vento portano le spore dei sogni. L’Appennino è il legame orografico e politico tra il Mediterraneo e l’Europa, come la grande ascissa che collega le ordinate della povertà e del benessere economico”.

Queste parole di Raffaele Nigro e Giuseppe Lupo non offrono solo il respiro culturale, letterario, storico ed antropologico ma hanno potenti ed evidenti implicazioni sociali ed economiche.

Non resta che augurarci un buon Festival del lavoro nelle aree interne.

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